Percorsi educativi di empowerment familiare nella tutela minori

Negli ultimi decenni l’idea diffusa di famiglia ha subito profonde trasformazioni; oggi non si può più parlare di famiglia al singolare: il modello statico di famiglia tradizionale, nel quale i ruoli dei singoli componenti erano predefiniti e secondo il quale la vita dei suoi componenti sembrava scorrere seguendo uno schema prestabilito, appare ormai superato; si parla sempre di più di famiglie, al plurale, a voler sottolineare la particolarità di ogni esperienza e di ogni scelta compiuta dal singolo individuo per la propria vita personale.

Ognuno di noi è il risultato di ciò che abbiamo vissuto e viviamo in un particolare tempo e in un particolare contesto. L’uomo è il creatore di un proprio mondo personale di valori e di significati; nell’osservarlo si pensa all’uomo nel suo “poter essere” ovvero nel suo non essere qualcosa di già dato e prestabilito perché quello che lo caratterizza è proprio di avere in sé la possibilità del cambiamento (Heidegger, 1976).

Il lavoro pedagogico con la famiglia suggerisce di de-costruire l’idea stessa di famiglia, arrivando nella migliore delle ipotesi a formulare un’idea provvisoria, “di questa famiglia in relazione a questo contesto” (Formenti, 2014). La famiglia appare come un sistema di individui in interconnessione tra loro, un sistema di fronte al quale, da pedagogisti, è importante porsi con uno sguardo complesso che sia in grado di cogliere in una visione di insieme la sua unicità. La famiglia viene vista come portatrice al suo interno delle risorse necessarie per far fronte ai momenti di crisi, di una propria storia che deve essere scoperta con curiosità, un sistema aperto che nel continuo scambio con l’ambiente e nelle relazioni tra i suoi componenti trova la sua garanzia di sopravvivenza.

L’incontro con gli studi di Gregory Bateson, e con l’ottica sistemica-costruttivista proposta di Laura Formenti, ha radicato in me la convinzione che se non si contestualizza l’esperienza di un individuo o di una famiglia si rischia di limitare l’ampiezza del nostro sguardo, focalizzando l’attenzione sul singolo senza cogliere davvero le problematiche e le risorse dell’intero sistema. Solo se facciamo questo sforzo di posizionarci sul limite della relazione per osservare la famiglia da un’altra prospettiva, potremmo aprirci con sguardo curioso su ogni storia e cogliere soluzioni diverse dove prima ne ammettevamo solo una e predefinita.
La complessità di uno sguardo pedagogico sulla famiglia consente all’operatore di cambiare prospettiva per cogliere anche quello che fino a quel momento è rimasto nascosto o inosservato: acquisire consapevolezza di tali emozioni e delle latenze del proprio agire aiuta a guardare dentro di sé ma anche al di fuori (Sclavi, 2003). Una consapevolezza che consente al professionista dell’educazione di riflettere sul processo educativo, riconoscendone il dispositivo ovvero non solo gli elementi che portano alla costruzione del processo stesso ma anche i suoi significati e le emozioni che sono messe in campo dagli interlocutori.
Quando un nucleo familiare attraversa una fase di difficoltà nel suo percorso di vita, per ragioni di svantaggio economico, o di marginalità sociale, o di incapacità di rispondere adeguatamente ai bisogni dei più piccoli spesso viene intercettata dai servizi di tutela Minori e Famiglia, scatenando i fantasmi di allontanamenti forzati e attivando atteggiamenti di resistenza, diffidenza, paura di essere giudicati a priori.
La famiglia, in questo contesto, diventa destinataria di un intervento educativo, spesso a margine dell’intervento sociale e assistenziale, che ha l’obiettivo di valutare le competenze genitoriali e di trasmettere un modello di relazione genitore-figlio, scandito in tempi e spazi prestabiliti, ritenuto garanzia di benessere per il bambino.
In molti casi gli operatori si avvicinano ad una storia attraverso relazioni, decreti, segnalazioni che mettono in evidenza gli aspetti di negligenza più che le risorse comunque presenti nella rete sociale e familiare. Questo spesso suscita la tendenza a far rientrare la famiglia in una “categoria”, ad applicare metodologie di intervento predefinite come se bisogni e soluzioni fossero già conosciuti e standardizzati. Poco tempo rimane per mettersi in ascolto di ogni esperienza, della sua specificità, per cogliere quel “poter essere” che potenzialmente può far evolvere il futuro di ogni individuo in molteplici direzioni.

Ho scelto un lavoro di ricerca che non avesse come scopo sostenere o confutare una metodologia di intervento ma esplorare l’esperienza di alcuni operatori che hanno sperimentato due dispositivi, la Family Group Conference e il programma P.I.P.P.I. che appaiono molto strutturati e scanditi in fasi temporali e operative ben precise ma che promuovono uno sguardo olistico sul bambino avendo come focus di attenzione l’intero sistema familiare e sociale nel quale è inserito e come obiettivo il riconoscimento e il potenziamento delle risorse che pur nella fragilità sono presenti nella famiglia.

La famiglia viene riconosciuta protagonista attiva del processo in quanto massima conoscitrice della sua storia e in quanto possiede le risorse necessarie a definire e costruire il proprio futuro; un domani che si sviluppa “in” e “a partire da” una storia che è la sua, vissuta in un contesto e basata su caratteristiche che la distinguono da tutte le altre famiglie: una storia da scoprire e un futuro da costruire. Non si tratta più di progettare per ma con la famiglia.

Non si può proteggere nessun bambino senza riconoscere la sua piena soggettività, senza considerare il suo intero sistema di vita, senza proiettarlo nel suo futuro piuttosto che scolpirlo in un passato che lo vincoli al suo destino, senza coinvolgere lui e i suoi genitori nella costruzione attiva e concreta di tale progetto, senza mettersi a fianco dei suoi genitori e aiutarli a fare nuovi apprendimenti rispetto alla genitorialità stessa (Serbati- Milani, 2013 pag 17-18).

La Family Group Conference è una metodologia di intervento nato in Nuova Zelanda dalla necessità di individuare una nuova modalità di approccio alle famiglie Maori nell’ambito della protezione di minori, prevalentemente affidata a operatori di etnia bianca.
La Family group Conference prevede la predisposizione di uno spazio e di un tempo di ascolto e di lavoro condiviso con tutti i componenti della rete familiare e sociale attiva nel processo educativo compreso il bambino stesso. In tale processo viene condiviso un percorso di analisi collettiva dei bisogni, di rilevazione delle risorse e di elaborazione del progetto educativo e di vita. Gli operatori professionisti hanno un ruolo di mediazione, di facilitazione e di garanzia dei livelli minimi necessari di tutela.

Attraverso una sequenza strutturata di fasi di realizzazione della riunione di famiglia che ne delinea tempi e modalità operative, la FGC rende il minore protagonista, sia nella definizione del bisogno che nella scelta dei partecipanti e nell’organizzazione della riunione vera e propria. Il bambino anche mediante l’intervento di un portavoce riesce a comunicare ai “grandi” il suo bisogno secondo quella che è la sua percezione e si vede riconoscere la capacità di poter “dire la sua” nella definizione del suo progetto di vita anche solo attraverso la microprogettazione di una soluzione ad un bisogno concreto e specifico.

Il programma P.I.P.P.I. è nato nel 2011 da una collaborazione tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Laboratorio di Ricerca e Intervento in Educazione Familiare dell’Università di Padova con la finalità di “innovare le pratiche di intervento nei confronti delle famiglie negligenti al fine di ridurre il rischio di allontanamento dei bambini dal nucleo familiare di origine”.

Questa metodologia di intervento mette in comunicazione tutti i servizi che gravitano attorno a ciascuna situazione, ottimizzando le risorse ma soprattutto rendendole più omogenee attraverso la proposta di una nuova modalità di presa in carico intensiva ma a breve/medio termine (18/24 mesi).e condivisa negli obiettivi e nella modalità di attuazione con famiglia, riconoscendo a ciascun componente la propria competenza. È prevista l’attivazione di una serie di dispositivi: dall’intervento educativo domiciliare ai gruppi di mutuo aiuto, dalle famiglie di appoggio all’attivazione della rete dei servizi che si occupano a vario titolo di quella famiglia coinvolgendo la famiglia stessa.

Ho proposto a 8 operatori, di diversa formazione, un’intervista narrativa con un’unica domanda stimolo iniziale ovvero “raccontami la metodologia (Pippi o Family) attraverso un caso”; questa domanda ha lasciato libero il mio interlocutore di affrontare l’argomento secondo la sua sensibilità svincolandolo dalla teoria per contestualizzarlo in un’esperienza specifica, in una storia.
Ho scelto di mettermi in ascolto delle loro storie professionali e indirettamente delle storie delle famiglie coinvolte, per capire se una metodologia può contribuire a diffondere nel sistema di welfare, una nuova visione di famiglia resiliente e dotata di un’altracompetenza diversa da quella che l’operatore si aspetta. Mi sono chiesta se attraverso la sperimentazione di una metodologia l’operatore può acquisire un nuovo approccio alla famiglia, ponendosi accanto e non di fronte, condividendo un linguaggio, avendo il coraggio di fermarsi nella sua sofferenza e nella sua difficoltà senza negarla o considerarla insuperabile, ma assumendola come base da cui partire per progettare insieme un nuovo percorso di vita.
Dall’analisi delle singole interviste ne è nata una riflessione a più voci che ha portato alla luce vissuti che se non espressi ed evidenziati, sarebbero scivolati via nella latenza della quotidianità spesso dominata dalle scadenze e dal carico di lavoro rischiando di influenzare l’agire senza esserne consapevoli.
Rileggendo più e più volte le interviste ho avvertito l’individualità, la Gestalt, di ciascuno di loro prendere forma. Ho quindi voluto sintetizzare in un sostantivo o in un aggettivo l’elemento che ha caratterizzato ciascuno di loro: un sentimento, un atteggiamento o una parola ricorrente, sottolineando così come l’esperienza personale di ciascun operatore possa influenzare la realizzazione anche dei dispositivi più strutturati. Ecco allora che ho incontrato Entusiasta, Dispiaciuta, Empatia, Condivisione, Collaborazione, Microprogettualità, Smart e non ultimo Indisciplinato.

Come l’indisciplinato ha ben declinato nel corso dell’intervista, questa sua caratteristica condensa lo sguardo pedagogico complesso che ritengo fondamentale assumere nell’avvicinarsi alla famiglia e alla sua storia. L’indisciplina viene intesa non come un’indole a uscire senza motivo dalle regole ma come capacità di sperimentarsi in ogni metodologia di intervento come se fosse un canovaccio interpretandolo creativamente.
L’indisciplina, così intesa, diventa allora capacità di. saper analizzare criticamente gli strumenti e i dispositivi che ci vengono proposti o che progettiamo noi stessi, per rielaborarli e adattarli alla nostra individualità e alla situazione nella quale agiamo. Uno sguardo alternativo e creativo all’interno di un’equipe che diventa allora uno stimolo ad uscire da schemi predefiniti per assumere una diversa prospettiva e per individuare nuovi mondi possibili.
Può essere considerata indisciplina la sensazione di sentirsi costretto nei tempi dettati da una metodologia, quando invece si avverte la necessità di fermarsi, di dedicare del tempo a scoprire l’unicità del bambino, a costruire una relazione di fiducia con lui o ad aiutarlo ad esprimere i suoi desideri e le sue paure; emerge l’importanza del tempo calato in una microprogettazione che consente di non perdersi in macro interventi spesso troppo complessi per essere pienamente realizzati, per calarsi nella quotidianità delle persone ponendosi piccoli obiettivi concreti.

L’utilizzo creativo di strumenti come i questionari, il triangolo del Mondo del Bambino, le ecomappe, o il kit della genitorialità, proposti dal programma P.I.P.P.I. contribuisce a renderli mediatori della relazione con la famiglia stessa; diventando un utile tramite per la costruzione di una relazione positiva con la famiglia, per guidarla nel riconoscimento delle dinamiche relazionali, nella definizione dei bisogni, nella rilevazione delle risorse per attivare un processo di co-progettazione e di corresponsabilità del progetto socio-educativo.

La creatività nella relazione educativa si esprime allora anche attraverso la capacità di modificare il linguaggio utilizzato per comunicare con la famiglia e per raccontare la sua storia. Un linguaggio troppo spesso formale e tecnico chiuso in definizioni e in formule imposte dalle relazioni con i Tribunali.
Emerge chiaramente dalle interviste la necessità di utilizzare un linguaggio più semplice, come ha detto Entusiasta, una delle assistenti sociali intervistate, “più bambino”, più vicino alla quotidianità perché è il linguaggio che deve raccontare la loro storia, la loro vita. Un linguaggio condiviso e compreso da tutti che diventa strumento per ridurre le distanze tra famiglia e servizio. È un linguaggio che recepisce il nuovo sguardo sulla famiglia, che trasforma la presa in carico in accompagnamento, i minori in bambini, gli utenti in cittadini, i casi in storie, un linguaggio che introduce nuove parole come co-progettazione, corresponsabilità, condivisione, collaborazione.
Si promuove un linguaggio che contribuisca a collocare l’intervento con la famiglia in un contesto di temporaneità, come appartenente ad una fase di vita di quel nucleo che però può trovare in sé e nel suo contesto le risorse e le capacità per risolvere una fase problematica: una fase che potrebbe arrivare nella vita di chiunque e che come tale non va giudicata ma conosciuta, compresa e accompagnata senza calare soluzioni predefinite dall’alto ma condividendo valutazione e progettazione di soluzioni.
La coprogettazione e la condivisione delle responsabilità passano sia attraverso la relazione con la famiglia che diventa protagonista attiva insieme al bambino dell’equipe multidisciplinare che decide del loro progetto di vita, sia attraverso la relazione con i colleghi di diversa professionalità che diventa attraverso queste metodologie, in particolare il programma P.I.P.P.I., paritaria.
La coprogettazione e la corresponsabilità tra operatori di formazione diversa e tra operatori e famiglia, sono caratteristiche cardine sia della F.G.C. che del programma P.I.P.P.I. e sembrano contribuire a scardinare un sistema gerarchico spesso latente nelle equipe multiprofessionali restituendo pari dignità a tutti i contributi, riconoscendo la ricchezza di un confronto e di un’integrazione tra le professionalità.
Condivido con gli operatori intervistati la consapevolezza che occorre essere protagonisti di un cambio di prospettiva culturale all’interno dei servizi: è importante contribuire a diffondere nelle nostre “comunità di pratica”, un’idea di educazione e di consulenza che si adatti alle multiformi ed eterogenee realtà familiari, uno sguardo complesso sulla famiglia attraverso il quale l’operatore non giudica, non offre una soluzione predefinita, non si sostituisce nei compiti genitoriali ma si affianca per accompagnare la famiglia nella riscoperta delle risorse già presenti in sé stesso per aiutarlo ad entrare e uscire dalle diverse cornici portando con sé la sua specificità e la sua storia. Uno sguardo che con umiltà è in grado di riconoscere quando l’obiettivo che ci si è posti è troppo alto e irrealizzabile e che, mettendo da parte il proprio senso di onnipotenza, riesce ad ridefinire insieme alla famiglia l’obiettivo, un obiettivo che diventa a misura di quella famiglia in quel determinato contesto.

*(Sunto della mia tesi magistrale in Scienze Pedagogiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca “Percorsi educativi di empowerment familiare: la complessità dello sguardo pedagogico negli interventi di tutela minori”)

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